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MICHELANGELO BUONARROTI
"Babilonia" n. 85, gennaio 1991, pp. 14-16
(...) Prendiamo Michelangelo. E'
da almeno un secolo che non c'è "lista dei froci famosi" che non si apra con il
suo nome. E meritatamente. Chi se non lui ha rivelato nella sua opera d'arte una
passione frenetica per il corpo maschile, addirittura esagerata, accoppiata a
rara insensibilità per quello femminile? Chi se non lui ha squadernato in
sonetti ardenti, che hanno fatto arrossire generazioni di studiosi di arte
figurativa e di letteratura, il suo bruciante ardore per una nutrita pattuglia
di giovanetti?
Febo Dal Poggio, Gherardo Perini,
Cecchino Bracci, Tommaso de' Cavalieri, compaiono e scompaiono nelle sue rime
amorose con tale forza da convincere il nipote, Michelangelo Buonarroti il
giovane, a trasformare in fanciulle tutti i fanciulli prima di pubblicare le
poesie del prozio.
Solo dal 1960 si possono leggere
nuovamente in Italia, anche in eccellenti edizioni economiche, il testo
originario e fortemente omoerotico delle Rime.
L'omosessualità di Michelangelo fu in effetti uno di quei
segreti (di Pulcinella) che solo l'interessato si ostina a considerare tali. Le
"voci" sui suoi gusti circondano la sua vita. Come testimonia Michelangelo nei
sonetti in cui cerca di convincere gli amati a non dar loro retta: E se'l vulgo
malvagio, isciocco e rio,/ di quel che sente, altrui segna e addita,/ non è
l'intensa voglia men gradita,/ l'amor, la fede e l'onesto desìo: così scrive nel
1534 all'adorato Tommaso.
Lo testimonia la goffa e
controproducente difesa d'ufficio fatta da Ascanio Condivi nella sua biografia
di Michelangelo.
Lo testimonia nel 1543 una lettera di
Pietro Aretino, che non riuscendo a ottenere in dono dal Buonarroti un disegno,
cerca di ricattarlo insinuando che solo i Tommasi de' Cavalieri e i Gherardi
Perini sanno il modo di ottenere disegni da lui (e non otterrà nulla
egualmente).
Lo testimonia l'esilarante lettera scritta
da Michelangelo verso l'agosto/settembre 1514, nella quale spiega a Niccolò
Quaratesi perché deve liquidare un suo conoscente che vuole a qualsiasi costo
mettere a bottega suo figlio presso Michelangelo.
In
preda ad frenesia paranoide il nostro racconta che l'uomo, per
convincerlo, aveva detto: "che se io lo vedessi, non che in casa, io me lo
caccerei nel letto".
Un onesto contratto:
se un, che so, grande artista accettasse di prendere mio figlio a bottega, io
non mi accorgerei di nulla anche se per accidente finisse nel suo letto.
Michelangelo però si affretta ad aggiungere al suo corrispondente: "Io vi dico
che rinunzio a questa consolazione, e non la voglio torre a lui. Perciò voi per
mio conto lo licenzierete". Meglio sbarazzarsi di chi mostra tanto
spudoratamente di conoscere il segreto (di Pulcinella).
CARNE E SPIRITO
Come tutti i "velati", Michelangelo non si accorge che gli altri
"sanno", ma lasciano correre. Né si rende conto che i suoi sistemi per cercare
di esprimere i suoi sentimenti senza però compromettersi, non ingannano
nessuno.
Michelangelo si era formato nella cerchia
neoplatonica del grande filosofo (omosessuale) Marsilio Ficino, ed aveva
assorbito le convenzioni e il linguaggio del revival dell'amore (fra uomini)
secondo il modello di Platone, che Ficino raccomandava.
Secondo Ficino, attraverso la bellezza della persona amata l'amante
riconosce la bellezza di Dio: così l'anima si innamora di un'altra anima, e non
certo del corpo, cosa volgare e turpe.
Per tutta la sua
lunga vita Michelangelo rimase attaccato a questo linguaggio, anche quando, per
il cambiare dei tempi, esso fu visto come una difesa della sodomia. (Quel che
nel tuo bel volto bramo e 'mparo,/ (...) mal compres'è dagli umani ingegni,
ammette al Cavalieri nel 1532).
Non capì, o rifiutò di
capire, che questo linguaggio funzionava solo per una ristretta elite colta: ma
la gente del popolo, cosa ne sapeva di Platone? Il suo "innamorarsi dell'anima"
poteva forse funzionare col Cavalieri, bello ma non ignorante, non certo con
marchettacce come Febo dal Poggio.
"La mia anima ti
ama" (sarò sempre al servitio vostro con fede e con amore, quanto nessuno altro
amico che abbiate al mondo), gli scrive Michelangelo verso il settembre 1534.
"Ho bisogno di soldi" (mi trovo bisognoso di denari), gli risponde Febo nel
gennaio 1535, chiudendo con un prepotente: e non mancate di rispondere.
Febo poteva essere prepotente perché quando Michelangelo amava
era ossessionato dal suo amore. Come mostra il povero Tommaso in una lettera del
primo gennaio 1533: a letto ammalato discute rispettosamente di virtù e amicizia
ma poi gli scappa un: Spero bene tra pochi giorni di esser guarito, se ella non
mi vuole di nuovo cominciare a tormentare.
Tommaso e
Febo simboleggiano i due poli fra cui oscilla il Buonarroti. Nonostante
Michelangelo fatichi un po' all'inizio per convincere il diffidente Tommaso
della purezza delle sue intenzioni (la gente sa, la gente parla), alla fine
trova in lui il complice consenziente per realizzare quell'ideale amatorio
platonico e rarefatto da cui trae consolazione. Lo chiama "signore mio", gli
scrive sonetti d'amore, lo idealizza, anzi lo deifica, e quanto più non osa
sfiorarlo nemmeno con un dito tanto più lo desidera carnalmente e lo ama.
Febo no, Febo è la carne ...e la richiesta di soldi. Anche con
lui Michelangelo prova con i sonetti neoplatonici, ma Febo, più pratico, vuole
contanti. L'Aretino aveva perfettamente ragione con le sue insinuazioni: un Febo
qualsiasi aveva davvero un più potere di lui nello spremere Michelangelo.
E come lui altri: ad esempio quell'anonimo che scrive la
lettera che nell'edizione critica dell'epistolario di Michelangelo porta il n.
940 (anteriore al 23-9-1534), il quale gli comunica dandogli del tu che: la
passione dell'animo è troppo dura cosa a sopportare. Aggiungendo: non guardare
alla mia tenera età, ché le forze d'amore, possono in me pur troppo, et mi
tormentano tanto per haverti perso. Dopodiché la trappola: Dirai forse che io
habbi commesso qualche errore inverso di te: il che, se pur è stato, è stato per
non vedere più in là che si bisogni. Segue richiesta di perdono. Tutto come da
copione.
Michelangelo cade nella trappola della separazione fra
sesso e sentimento perché dentro di sé vive tutti i sensi di colpa sessuofobici
e i dubbi dell'incipente clima controriformistico.
La
sua tanto chiacchierata amicizia con Vittoria Colonna, capofila degli ambienti
cripto-protestanti italiani dell'epoca, testimonia simpatie e bisogni religiosi
non ortodossi, ma molto sentiti.
Egli si sente davvero
colpevole per i suoi atti. Verso il 1520 scrive per esempio: L'etterna pena mia
(...)/ veggio, Signor, né so quel ch'io mi spero. Le speranze fugaci, dice,
piangendo, amando, ardendo e sospirando/ (c'affetto alcun mortal non m'è più
nuovo)/ m'hanno tenuto, ond'il conosco e pruovo,/ lontan certo dal vero. La
terminologia usata denuncia il carattere amoroso delle "speranze" in
questione.
Anzi, carattere sessuale. Perché il Nostro
almeno una volta si lascia scappare menzione delle gioie provate a letto in
buona compagnia.
Lo fa in una variante di finale di uno
dei tanti epitaffi che scrisse per piangere la morte del sedicenne Cecchino
Bracci: La carne terra, e qui l'ossa mia, prive/ de' lor begli occhi, e del
leggiadro aspetto/ fan fede a quel ch'i' fu grazia nel letto,/ che abbracciava,
e' n che l'anima vive. (Cioè: "Qui la carne, ora ridotta a polvere, e le mie
ossa/ prive dei begli occhi e della mia bellezza/ rendono testimonianza a colui
a cui portai grazia nel letto,/ che abbracciavo, e nel quale la mia anima
continua a vivere")
Cecchino non attirava solo le
attenzioni del Buonarroti (basti dire che gli epitaffi erano scritti per un suo
parente, complice di Michelangelo nel condividere i favori di Cecchino) ma la
mancanza di spazio mi impedisce di dirne di più su questa piccante vicenda. Vi
ho accennato solo per sfatare il mito secondo cui non si avrebbero documenti sui
"pretesi" rapporti omosessuali del Buonarroti.
Il
lettore potrà comunque approfondire questo ed altri avvenimenti cercando in
biblioteca L'altro Michelangelo di Giorgio Lise (Cordani, Milano 1981),
eccellente e seria monografia non pruriginosa dedicata all'omosessualità del
Nostro, e a un'eccellente analisi di tutti i documenti iconografici (compresi i
ritratti degli amati) collegati al nostro tema.
Simile
analisi appare anche nel capitolo dedicato a Michelangelo in: Ganymede in the
Renaissance di James Saslow (Yale university press, 1986). Affascinantissima è
qui la decifrazione del codice dei disegni che Michelangelo donò a Tommaso.
Disegni che i collezionisti (e l'Aretino) non riuscivano ad ottenere a nessun
prezzo, e che Michelangelo regalava all'adolescente romano solo per potergli
mandare un messaggio amoroso.
Eccone qualcuna. "Il
ratto di Ganimede": l'anima viene rapita a Dio attraverso la bellezza del
ragazzo amato. "La caduta di Fetonte": l'anima precipita se si lascia andare
agli appetiti carnali. "Tizio lacerato dall'aquila": le sofferenze dell'amante
lacerato dalle pene d'amore.
Nei disegni per Tommaso
Michelangelo si lasciò andare ad azioni di una spudoratezza sbalorditiva: fra le
miserie umane rappresentate nel "Sogno della vita umana" c'era una mano
(raschiata via nel corso dei secoli da qualche proprietario del disegno, ma
attestata nelle copie antiche) intenta a un atto di masturbazione.
Questo era Michelangelo quando amava. Se davvero ebbe muse
ispiratrici di sesso femminile, non le invidio. Per battere gli "ispiratori"
esse debbono aver lottato parecchio. Oltre che invano.
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